Guido Tabellini
Giovanni Sartori è un illustre politologo. Le sue idee sono spesso importanti e innovative, ed
espresse con forza e capacità di persuasione. Per questo, ciò che egli scrive va seguito con
attenzione. Ma in un paio di recente articoli sul Corriere della Sera, il professor Sartori ha preso
una solenne cantonata. Poiché l’argomento è importante, e il suo errore è ricorrente nel
dibattito italiano, è bene smascherarlo al più presto.
Vantaggi comparati e assoluti
Il problema affrontato è la Cina, e in particolare l’incapacità dell’Italia e dell’Europa a reggere
la competizione con i cinesi. Sartori parte da un dato di fatto: il costo del lavoro (aggiustato
per la produttività) in Cina è molto più basso che da noi, e ciò è destinato a durare. Ma allora,
si chiede Sartori, cosa possiamo vendere ai cinesi? Nulla, è la sua risposta: "Se e finché il costo
del lavoro in Cina sarà di 10-30 volte inferiore ai costi dei paesi ricchi, allora la legge di Ricardo
dei costi comparati richiede che per ripristinare uno scambio che induca i cinesi a comprare in
Europa prodotti europei, occorrerebbe che i nostri lavoratori accettino di ridurre da 10 a 30
volte i loro salari". [fonte: Corriere della Sera, 27 giugno.]
E questo non è né giusto né possibile. Sembra un ragionamento impeccabile. Ma, nonostante il
richiamo a Ricardo, confonde vantaggi comparati con vantaggi assoluti. Un semplice
esempio chiarisce l’errore. Supponiamo che il costo di produrre una maglietta in Cina sia pari a
un ventesimo del costo italiano, e che il costo di produrre una lavatrice in Cina sia un decimo
del costo italiano. In regime di libero scambio, l’industria cinese si specializzerà in magliette e
importerà lavatrici dall’Italia. Ma come, si chiede Sartori, perché mai i cinesi dovrebbero
comprare lavatrici dall’Italia, se possono produrle a un costo dieci volte inferiore? Perché per
produrre lavatrici, i cinesi dovrebbero rinunciare a produrre magliette; e, dato il loro vantaggio
comparato, questo proprio non gli conviene. È molto meglio per i cinesi produrre magliette, e
con il ricavato comprarsi le lavatrici italiane.
Questo non vuol dire che tutto vada bene, e che non dobbiamo preoccuparci della Cina.
Dobbiamo preoccuparcene eccome. Ma la ragione non è che i cinesi sono pagati molto meno di
noi. La ragione è che la Cina sta erodendo un nostro vantaggio comparato. Continuando
con l’esempio precedente, una volta compravamo riso dai cinesi, vendendo loro sia magliette
che lavatrici. Ora, la Cina ha fatto un salto tecnologico: ha acquisito un vantaggio comparato
sulle magliette, lo ha perso sul riso (magari verso un paese terzo che diventa esportatore di
riso). L’Italia, che esportava magliette e lavatrici, ha subito un peggioramento delle sue ragioni
di scambio. Ora riesce a esportare solo lavatrici, le sue magliette non le compra più nessuno:
per l’Italia è una perdita netta di benessere. Sottigliezze inutili, dirà uno scettico. Se oggi la
Cina ha eroso il nostro vantaggio comparato sulle magliette, domani lo farà con le lavatrici.
Alla fine, il risultato sarà sempre lo stesso, la de-industrializzazione del nostro paese. Ma
l’obiezione non regge. La Cina non può acquisire un vantaggio comparato in tutti i settori.
Altrimenti, torneremmo a confondere vantaggio comparato e assoluto.
Tra il 1997 e il 2001, l’industria tessile e dell’abbigliamento americano ha distrutto più di
180mila posti di lavoro. Dal 2001 al 2004 ne ha persi altri 350mila. Uno studio di Mc
Un grande mercato in espansione
Vedere il problema in termini di vantaggi comparati aiuta a capire che la Cina non è solo una
minaccia, ma anche e soprattutto un’opportunità. Un paese di 1 miliardo e 300 milioni di
persone, il cui reddito cresce dell’8 per cento all’anno per qualche decennio, è un gigantesco
mercato in espansione. La Cina non importa solo petrolio e materie prime, ma anche beni di
consumo e prodotti industriali di ogni genere. Nel 2004 è stato il terzo partner commerciale
dell’Unione Europea sul lato delle esportazioni, davanti a Giappone e Russia. Qualcuno ne ha
saputo approfittare: le esportazioni della Germania verso la Cina sono triplicate tra il 1999 e il
2003. Ma per approfittarne anche noi, dobbiamo evitare gli errori. Il protezionismo non è una
via d’uscita. Con o senza barriere commerciali, non riusciremo a difendere un vantaggio
comparato in settori in cui ciò che conta è solo la quantità di lavoro. Non ci sono riusciti altri
ben più agguerriti di noi, come gli Stati Uniti.
Tra il 1997 e il 2001, l’industria tessile e dell’abbigliamento americano ha distrutto più di
180mila posti di lavoro. Dal 2001 al 2004 ne ha persi altri 350mila. Uno studio di McKinsey
conclude che entro pochi anni la Cina potrebbero raggiungere il 50 per cento delle esportazioni
mondiali nel tessile. Possiamo rallentare questa tendenza, ma non invertirla. La vera sfida è
rinforzare i vantaggi comparati in altri settori. Questo vuol dire sfruttare meglio la mano
d’opera istruita, trattenere in Italia i nostri migliori scienziati, migliorare le istituzioni e le
infrastrutture, liberalizzare i servizi, facilitare la riallocazione delle risorse. Non sono "pannicelli
caldi", come li chiama Sartori. Sono l’unica cosa sensata da fare.
I nostri uomini politici hanno già le idee piuttosto confuse. Cominciano a essere tentati dal
protezionismo e dal populismo. Non diamo loro altre scuse per evitare di affrontare le vere
sfide economiche del paese.
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